Piemonte, Trieste e la Sicilia: tre tappe di vino e letteratura

copertinaUn blog con questo nome non poteva esordire diversamente. Da sempre presenza fissa nei canoni letterari, il vino ha sempre trovato posto nelle pagine dei libri. Gli sono stati dedicati testi, poesie, odi e aforismi. Tanti personaggi letterari sono stati puniti per averne abusato, da Noè, sorpreso dal figlio Cam a dormire nudo, ad Anchise, che preso dall’ebrezza si vanta del suo amore con Afrodite provocando l’ira di Zeus che lo rende zoppo con una saetta. Per non parlare delle tante parole, ora tecniche ora bucoliche, con cui i romani hanno descritto ed elogiato la viticultura. Non è però di antichità che ci occuperemo, bensì di Novecento italiano. Quattro esempi, molto semplici, dell’atmosfera che un vino può evocare tra le pagine di un romanzo.

Il vino come presa di coscienza di sé: Elio Vittorini e la sua Conversazione

In Conversazione in Sicilia, il testo più maturo di Vittorini, Silvestro ritorna alla propria isola natale spinto dagli “astratti furori” che lo spingono alla ricerca di un placarsi dei mali che offendono un genere umano ormai perduto. Nel corso del suo peregrinare, il protagonista si imbatte, tra gli altri, in tre personaggi: l’arrotino, il bottegaio Ezechiele e il paniere Porfirio. I quattro si dirigono al bar di Colombo, dove bicchiere dopo bicchiere cercano di dimenticare i mali che affliggono il mondo gettandosi nella consolazione alcolica. Silvestro, però, non è questo che cerca: “Io, ripeto, ero sempre al quarto boccale. Qualcosa mi aveva fermato al principio di esso e non potevo più bere, non osavo più inoltrarmi nella squallida nudità senza terra del vino”. Accortosi che tutti nel locale hanno chinato il capo, illusi ma in realtà rassegnati al reale, Silvestro se ne va: “[…] non era in questo che avrei voluto credere, in questo non c’era mondo, e andai via, attraversai la piccola strada, giunsi dove abitava mia madre”.


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Il vino come mancata occasione: Zeno Cosini di fronte al suocero

Chi sembrerebbe trovare nel vino la forza della prima azione decisa della propria vita, ma poi sceglie consapevolmente di rimane vigile e di non azzardare è Zeno Cosini, la cui coscienza è protagonista del celebre testo di Italo Svevo. Nel corso di una cena in onore delle nozze di Ada, la più bella delle sorelle Malfenti verso cui Zeno rivolge le proprie antenne amorose salvo poi doversi accontentarsi della più bruttina delle quattro, Augusta, il protagonista affronta il suocero, che per prescrizione medica non può bere, a suon di bicchieri: “Gridai che non era un vero uomo non chi abusava dei cibi ma colui che supinamente s’adattava alle prescrizioni del medico. Io, nel caso suo, sarei stato ben altrimenti indipendente”. L’invettiva prosegue al punto che Zeno rivendica fieramente il proprio vizio, il fumo, e soprattutto il non saperne uscire. Tutto però si consuma in pochi istanti. Al solo vedere che il suocero non beve il vino che gli ha versato in segno di sfida, Zeno rientra nella sua dimensione umana, remissiva e neutrale: “Egli non aveva fatto un solo gesto per approfittare del vino che gli avevo offerto. Mi sentii veramente avvilito e vinto. Mi sarei quasi gettato ai piedi di mio suocero per chiedergli perdono”. Nemmeno il vino può diradare il grigiore che lo avvolge, e la chiosa è significativa: “Non tutti gli ubriachi sono preda immediata di tutti i suggerimenti del vino. Quando ho bevuto troppo, io analizzo i miei conati come quando sono sereno e probabilmente con lo stesso risultato”. Al più, il senso di ebbrezza può coprire l’indomani al risveglio un fastidio al fianco: “Mi affannò un poco il mio dolore al fianco, probabilmente perché, finché era durato l’effetto del vino, non lo avevo sentito affatto e subito ne avevo perduto l’abitudine”. Il vino come rimedio al male al fianco, ma non come evasione da quello di vivere.


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Il vino come ricordo della terra amata: le Langhe di Fenoglio e Pavese

“Mi scusi, capitano, ma devo gettare uno sguardo personale su questo mio personalissimo fiume..” Così il partigiano Johnny, nel romanzo di Beppe Fenoglio, si rivolge al proprio capitano di brigata. Il fiume di cui si parla è il Tanaro, che nasce sul Monte Saccarello in piene Alpi Liguri per poi sfociare nel Po, di cui è il maggiore affluente di destra. Tra i paesi toccati dal bacino c’è anche Barbaresco, luogo di produzione dell’omonimo rinomato vino piemontese. Nel testo itangliese di Fenoglio questo rosso piemontese riemerge qua e là tra le pagine, elevato soprattutto a simbolo della propria terra e dei luoghi più cari, contesi tra fascisti e partigiani. Si dice, tuttavia, che Fenoglio non fosse un grande amante di questo vino. Who would have thought it?


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Restando nello stesso contesto storico e geografico, spostandoci solamente una trentina di chilometri ad est nella zona di Santo Stefano Belbo, il profumo del vino ritorna con insistenza anche nelle pagine de La luna e i falò, tra i testi più celebri di Cesare Pavese. La terra delle Langhe, con i vigneti e l’odore di vendemmia, sono ben presenti nel ricordo di Anguilla. “Questi discorsi li facevamo sullo stradone, o alla finestra bevendo un bicchiere, e sotto avevamo la piana del Belbo,…”, dice il protagonista a proposito delle conversazioni con il mai partito amico Nuto. Appena tornato, bastano poche pagine ad Anguilla per ritornare padrone di ricordi mai sopiti: “La collina di Gaminella, un versante lungo e ininterrotto di vigne e di rive […] e in cima, chi sa dove, ci sono altre vigne, altri boschi, altri sentieri”. Tra l’altro, proprio il Barbaresco era il vino preferito di Pavese, e spesso a pranzo ne offriva un bicchiere ai giovani scrittori che gli si presentavano per sottoporgli un manoscritto ai tempi del lavoro in Einaudi.

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